1978: A 30 anni dall'uccisione...
Perché ricordare Peppino, esempio di coraggio e intelligenza.
Perché ricordare Peppino, esempio di coraggio e intelligenza.
Giuseppe Impastato nacque a Cinisi, in provincia di Palermo, il 5 gennaio 1948. Proveniente da una famiglia mafiosa, avvia una ampia attività politico-culturale antimafiosa. Dal 1968 partecipa, con ruolo dirigente, alle attività dei gruppi di Nuova Sinistra. Conduce le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo, in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati. Nel 1976 fonda Radio Aut, con cui denuncia i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, che avevano un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga attraverso il controllo dell’aeroporto. E, in primo luogo, denuncia il capomafia Gaetano Badalamenti, che chiamava in modo beffeggiatorio “don Tano seduto”, capo della città di Mafiopoli, nella satirica trasmissione “Onda pazza” molto seguita nel paese. Nel 1978 si candida alle elezioni comunali nella lista di Democrazia Proletaria. Viene assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, proprio nel corso della campagna elettorale, con una carica di tritolo posta sotto il corpo adagiato sui binari della ferrovia. Stampa, forze dell’ordine e magistratura parlano però di “atto terroristico” in cui l’attentatore sarebbe rimasto vittima e, dopo il rinvenimento di una lettera scritta molti mesi prima, addirittura di “suicidio”. Grazie all’attività della madre Felicia Bartolotta e del fratello Giovanni, che rompono pubblicamente con la parentela mafiosa, dei compagni di militanza, del Centro siciliano di documentazione di Palermo, viene individuata la matrice mafiosa del delitto e sulla base della documentazione raccolta e delle denunce presentate viene riaperta l’inchiesta giudiziaria.
Il caso giudiziario è stato chiuso e riaperto più volte nel corso di più di 20 anni e solo nel 1997 viene emesso un ordine di cattura per Gaetano Badalamenti, capo mafia di Cinisi, finalmente incriminato come mandante del delitto. Il processo contro Badalamenti viene svolto con rito normale e in video-conferenza (poiché Badalamenti si trovava in carcere negli Stati Uniti e l’Italia non aveva ottenuto il permesso di estradizione per far sì che egli fosse presente al processo). Intanto, nel 1998, presso la Commissione parlamentare d’inchiesta antimafia si era costituito un Comitato sul «caso Impastato» che porta all’approvazione all’unanimità, il 6 dicembre 2000, della Relazione - appunto sul «caso Impastato» - sulle responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini. Infine, con fatica e dopo più di 20 anni, nonché grazie anche al contributo della Commissione parlamentare d'inchiesta antimafia, Vito Palazzolo e Gaetano Badalamenti vengono riconosciuti colpevoli del delitto Impastato e condannati (5 marzo 2001: condanna a 30 anni di reclusione per Palazzolo; 11 aprile 2002: condanna all’ergastolo per Badalamenti).
La Commissione non si è posta il compito di giungere a conclusioni sul delitto Impastato, bensì di indagare su cosa si sia opposta a fare verità e giustizia. L’indagine ha ricostruito “l’anatomia di una deviazione” che, da subito, ha impedito di ricercare i mandanti e gli esecutori dell’omicidio. La Commissione parlamentare d’inchiesta antimafia, per la prima volta nella storia, si è trovata ad indagare su una vicenda così specifica mentre era in corso il relativo processo penale (a distanza di ben 22 anni dall’omicidio!). Nonostante la concomitanza, l’inchiesta della Commissione è riuscita a svilupparsi su un piano del tutto autonomo e distinto dall’indagine penale.
Dunque, la Commissione ha offerto della vicenda una visuale storica e processuale che evidenzia come alcuni uomini delle pubbliche istituzioni abbiano operato con «omissioni e veri e propri vuoti di contrasto allo sviluppo del potere mafioso della zona». Omissioni e vuoti di contrasto che si determinarono su un territorio segnato dalla sottovalutazione del sistema mafioso combattuto e denunciato apertamente da Peppino Impastato.
Nella prima parte della Relazione sul «caso Impastato» si illustra quanto grave fosse il contesto dei rapporti tra mafia e strutture statuali nella prima metà degli anni ’70, quando – nonostante comportamenti coraggiosi da parte di uomini delle forze dell’ordine, magistrati, politici, esponenti della società civile – a prevalere furono la scarsa coscienza della gravità del fenomeno mafioso e una tolleranza che, troppo spesso, diventava connivenza.
Parlare di mafia, nella Sicilia degli anni ’70, era già un atto di coraggio, ma fare i nomi dei mafiosi e addirittura ridicolizzarne i capi pubblicamente era sicuramente un atto temerario. Peppino Impastato con coraggio e temerarietà condusse un attacco reale alle prepotenze della mafia: utilizzando la radio ridicolizzò, mise in difficoltà, combatté, e in particolar modo "smitizzò" Tano Badalamenti, che in quel territorio si poneva come un forte punto di riferimento. Ma Peppino ha fatto anche di più: perché alla mafia si è ribellato in casa propria; perché da una famiglia mafiosa proveniva.
Si interrogò, da giovanissimo e a lungo, Peppino: colse il legame tra mafia e assetto sociale e politico. Il che fu molto più di una semplice denuncia di qualche accordo nascosto tra singoli politici e boss, fu la denuncia di un sistema strutturato di attività criminosa. Ma soprattutto Peppino informò: informò i compagni, gli amici e Cinisi tutta, e lo fece con ironia. Per questo fu massacrato senza pietà dalla mafia; per questo fu attuato il depistaggio nelle indagini sulla sua morte.
Il dovere della memoria e del costante impegno antimafia: ecco perché la Commissione parlamentare antimafia ha trovato la forza di indagare e il coraggio di trarre delle conclusioni, indicando le responsabilità e i depistaggi che si attuarono contro Peppino Impastato.
Quindi, «caso Impastato». Sì, perché «caso» è diventato quella che sarebbe dovuta essere una vita, una vita comune di un giovane siciliano che è vissuto negli (e che ha vissuto gli) anni ’60. Una vita che, però, comune non fu: perché vissuta in un piccolo Comune come tanti della Provincia di Palermo (dunque questo sì comune); perché vissuta a stretto contatto con la mafia (a “Cento passi” ma anche meno dalla mafia), come spesso accadeva (e accade) in Sicilia (dunque questo sì comune); perché vissuta pienamente e interamente all’insegna di principi di giustizia, di solidarietà, di impegno civile, culturale e politico, nonché di vera e propria controinformazione, denuncia e lotta contro la mafia. Una lotta non astratta a un concetto generico di mafia, bensì una lotta sul campo ad ogni affare portato avanti nel territorio di Cinisi da quei mafiosi che da tutti erano conosciuti, da tutti erano temuti e rispettati, da tutti (istituzioni comprese) erano accettati e tollerati come status quo tipico di quella bellissima ma martoriata e sfruttata Sicilia.
La Relazione sul «caso Impastato» si proietta ben al di là del delitto di Cinisi, verso il futuro. Innanzitutto perché si tratta del primo atto di inchiesta – nella lunga, quarantennale, storia delle Commissioni parlamentari antimafia – su un delitto politico mafioso e, contemporaneamente, sui dirottamenti, inquinamenti e impedimenti riguardo la ricerca della verità e della giustizia. E' una grande opportunità e può diventare proposta, nonché prototipo, della inchiesta a cui avrebbero dovuto e potuto essere già sottoposti, da parte delle varie Commissioni antimafia, i grandi delitti e al tempo stesso gli eclatanti occultamenti e/o dirottamenti politico-mafiosi. Può essa considerarsi prototipo sicuramente per la metodologia della ricerca delle fonti, della lettura dei documenti, del lavoro di riscontri incrociati. Essa è – usando le parole del suo Relatore, senatore Giovanni Russo Spena – «una rigorosa verifica critica, che prende le mosse dalla rabbiosa ma documentata criticità che aveva animato, dal primo momento, la mamma Felicia, il fratello Giovanni, gli amici e i compagni, il Centro di documentazione diretto da Umberto Santino».
La Relazione ricostruisce un pezzo della Sicilia degli anni '70 in cui le zone di collusione tra segmenti dello Stato e mafia furono vere e profonde, nonché spiegazione delle forti difficoltà nello sconfiggere gli uomini di Cosa Nostra. Essa ha anche il merito di affermare che alla legalità - e quindi ad abbattere la mafia - si arriva attraverso un'azione integrata tra cultura, società, economia, istituzioni condotta giorno per giorno. Infine, può dirsi che essa rappresenti un doveroso risarcimento verso chi ha lottato contro l’antistato costituito dalla mafia. Dunque, non un punto di arrivo bensì di partenza.
Il caso giudiziario è stato chiuso e riaperto più volte nel corso di più di 20 anni e solo nel 1997 viene emesso un ordine di cattura per Gaetano Badalamenti, capo mafia di Cinisi, finalmente incriminato come mandante del delitto. Il processo contro Badalamenti viene svolto con rito normale e in video-conferenza (poiché Badalamenti si trovava in carcere negli Stati Uniti e l’Italia non aveva ottenuto il permesso di estradizione per far sì che egli fosse presente al processo). Intanto, nel 1998, presso la Commissione parlamentare d’inchiesta antimafia si era costituito un Comitato sul «caso Impastato» che porta all’approvazione all’unanimità, il 6 dicembre 2000, della Relazione - appunto sul «caso Impastato» - sulle responsabilità di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini. Infine, con fatica e dopo più di 20 anni, nonché grazie anche al contributo della Commissione parlamentare d'inchiesta antimafia, Vito Palazzolo e Gaetano Badalamenti vengono riconosciuti colpevoli del delitto Impastato e condannati (5 marzo 2001: condanna a 30 anni di reclusione per Palazzolo; 11 aprile 2002: condanna all’ergastolo per Badalamenti).
La Commissione non si è posta il compito di giungere a conclusioni sul delitto Impastato, bensì di indagare su cosa si sia opposta a fare verità e giustizia. L’indagine ha ricostruito “l’anatomia di una deviazione” che, da subito, ha impedito di ricercare i mandanti e gli esecutori dell’omicidio. La Commissione parlamentare d’inchiesta antimafia, per la prima volta nella storia, si è trovata ad indagare su una vicenda così specifica mentre era in corso il relativo processo penale (a distanza di ben 22 anni dall’omicidio!). Nonostante la concomitanza, l’inchiesta della Commissione è riuscita a svilupparsi su un piano del tutto autonomo e distinto dall’indagine penale.
Dunque, la Commissione ha offerto della vicenda una visuale storica e processuale che evidenzia come alcuni uomini delle pubbliche istituzioni abbiano operato con «omissioni e veri e propri vuoti di contrasto allo sviluppo del potere mafioso della zona». Omissioni e vuoti di contrasto che si determinarono su un territorio segnato dalla sottovalutazione del sistema mafioso combattuto e denunciato apertamente da Peppino Impastato.
Nella prima parte della Relazione sul «caso Impastato» si illustra quanto grave fosse il contesto dei rapporti tra mafia e strutture statuali nella prima metà degli anni ’70, quando – nonostante comportamenti coraggiosi da parte di uomini delle forze dell’ordine, magistrati, politici, esponenti della società civile – a prevalere furono la scarsa coscienza della gravità del fenomeno mafioso e una tolleranza che, troppo spesso, diventava connivenza.
Parlare di mafia, nella Sicilia degli anni ’70, era già un atto di coraggio, ma fare i nomi dei mafiosi e addirittura ridicolizzarne i capi pubblicamente era sicuramente un atto temerario. Peppino Impastato con coraggio e temerarietà condusse un attacco reale alle prepotenze della mafia: utilizzando la radio ridicolizzò, mise in difficoltà, combatté, e in particolar modo "smitizzò" Tano Badalamenti, che in quel territorio si poneva come un forte punto di riferimento. Ma Peppino ha fatto anche di più: perché alla mafia si è ribellato in casa propria; perché da una famiglia mafiosa proveniva.
Si interrogò, da giovanissimo e a lungo, Peppino: colse il legame tra mafia e assetto sociale e politico. Il che fu molto più di una semplice denuncia di qualche accordo nascosto tra singoli politici e boss, fu la denuncia di un sistema strutturato di attività criminosa. Ma soprattutto Peppino informò: informò i compagni, gli amici e Cinisi tutta, e lo fece con ironia. Per questo fu massacrato senza pietà dalla mafia; per questo fu attuato il depistaggio nelle indagini sulla sua morte.
Il dovere della memoria e del costante impegno antimafia: ecco perché la Commissione parlamentare antimafia ha trovato la forza di indagare e il coraggio di trarre delle conclusioni, indicando le responsabilità e i depistaggi che si attuarono contro Peppino Impastato.
Quindi, «caso Impastato». Sì, perché «caso» è diventato quella che sarebbe dovuta essere una vita, una vita comune di un giovane siciliano che è vissuto negli (e che ha vissuto gli) anni ’60. Una vita che, però, comune non fu: perché vissuta in un piccolo Comune come tanti della Provincia di Palermo (dunque questo sì comune); perché vissuta a stretto contatto con la mafia (a “Cento passi” ma anche meno dalla mafia), come spesso accadeva (e accade) in Sicilia (dunque questo sì comune); perché vissuta pienamente e interamente all’insegna di principi di giustizia, di solidarietà, di impegno civile, culturale e politico, nonché di vera e propria controinformazione, denuncia e lotta contro la mafia. Una lotta non astratta a un concetto generico di mafia, bensì una lotta sul campo ad ogni affare portato avanti nel territorio di Cinisi da quei mafiosi che da tutti erano conosciuti, da tutti erano temuti e rispettati, da tutti (istituzioni comprese) erano accettati e tollerati come status quo tipico di quella bellissima ma martoriata e sfruttata Sicilia.
La Relazione sul «caso Impastato» si proietta ben al di là del delitto di Cinisi, verso il futuro. Innanzitutto perché si tratta del primo atto di inchiesta – nella lunga, quarantennale, storia delle Commissioni parlamentari antimafia – su un delitto politico mafioso e, contemporaneamente, sui dirottamenti, inquinamenti e impedimenti riguardo la ricerca della verità e della giustizia. E' una grande opportunità e può diventare proposta, nonché prototipo, della inchiesta a cui avrebbero dovuto e potuto essere già sottoposti, da parte delle varie Commissioni antimafia, i grandi delitti e al tempo stesso gli eclatanti occultamenti e/o dirottamenti politico-mafiosi. Può essa considerarsi prototipo sicuramente per la metodologia della ricerca delle fonti, della lettura dei documenti, del lavoro di riscontri incrociati. Essa è – usando le parole del suo Relatore, senatore Giovanni Russo Spena – «una rigorosa verifica critica, che prende le mosse dalla rabbiosa ma documentata criticità che aveva animato, dal primo momento, la mamma Felicia, il fratello Giovanni, gli amici e i compagni, il Centro di documentazione diretto da Umberto Santino».
La Relazione ricostruisce un pezzo della Sicilia degli anni '70 in cui le zone di collusione tra segmenti dello Stato e mafia furono vere e profonde, nonché spiegazione delle forti difficoltà nello sconfiggere gli uomini di Cosa Nostra. Essa ha anche il merito di affermare che alla legalità - e quindi ad abbattere la mafia - si arriva attraverso un'azione integrata tra cultura, società, economia, istituzioni condotta giorno per giorno. Infine, può dirsi che essa rappresenti un doveroso risarcimento verso chi ha lottato contro l’antistato costituito dalla mafia. Dunque, non un punto di arrivo bensì di partenza.
*Alessandra*
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