Lo specchio del degrado della nostra democrazia
di Francesco Forgione,
deputato del Prc-Se e Presidente della Commissione parlamentare antimafia
La riforma morale della politica nel nostro paese non è più rinviabile. Senza di essa la democrazia si spegne, come le stesse vicende politiche nazionali stanno dimostrando
La vicenda Cuffaro non rappresenta una delle tante vicende giudiziarie siciliane e neanche una delle tante forme di distorsione della politica in una terra martoriata dalla mafia. Per questo merita una riflessione approfondita. Non è mai successo prima, nella storia repubblicana, che un presidente di regione fosse condannato per favoreggiamento ai mafiosi. La sentenza è di una gravità eccezionale e senza precedenti: 5 anni di reclusione (il massimo della pena prevista per favoreggiamento, aggravato dal comma 2 dell’art. 378 del codice penale) per aver favorito soggetti aderenti all’associazione mafiosa. A questa pena i giudici hanno aggiunto l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, pena significativamente ancora più grave per chiunque ricopra cariche pubbliche e, in questo caso, parliamo della massima istituzione della regione siciliana, equiparata dalla nostra costituzione a rango di ministro.
Una sentenza che conferma l’intero impianto accusatorio dei pubblici ministeri, condannando tredici su quattordici imputati, tra i quali figura centrale è Michele Aiello, l’imprenditore di Bagheria, proprietario della famosa clinica Villa Santa Teresa, prestanome di Bernardo Provenzano, condannato a 14 anni di reclusione e alla confisca immediata di 60 milioni di euro, 20 dei quali da restituire alla asl di Palermo.
L’altro elemento riconosciuto nella sentenza è la condotta continuata nella reiterazione del reato da parte di Cuffaro nel sistema messo in piedi assieme agli altri imputati.
Ma chi sono i soggetti mafiosi favoriti da Cuffaro? Innanzitutto Guttadauro, boss e capo mandamento di Brancaccio, uno dei principali quartieri mafiosi di Palermo, più volte condannato e in galera e all’epoca dei fatti agli arresti domiciliari; Aragona, medico e mafioso con condanne già scontate; Greco, anche lui medico e all’epoca dei fatti sotto processo per mafia; Miceli, medico, politico suo fedelissimo, all’epoca dei fatti sempre indagato per 416 bis e successivamente condannato a 8 anni di carcere; il maresciallo Riolo, condannato a 6 anni di reclusione e l’imprenditore Michele Aiello. Una sentenza grave, per violazione di segreto e favoreggiamento aggravato a singoli mafiosi ma non all’organizzazione Cosa Nostra.
E’ chiaro che una sentenza di questo tipo pone un problema di trasparenza della politica e di legittimità democratica per la permanenza alla più alta carica istituzionale della Regione siciliana. Una incompatibilità etica e morale, in una regione che ha pagato il più alto tributo di vite umane allo scontro tra la mafia e la democrazia, con il sacrificio di uomini dello stato, magistrati, politici, sindacalisti, preti, imprenditori e tanta gente “comune”, donne e uomini vittime di una violenza segnata dalla presenza mafiosa e dalle sue coperture e collusioni politico-istituzionali.
Come si può sostenere, nel momento della ribellione degli imprenditori e dei commercianti alla mafia del pizzo, che un imprenditore, nelle stesse condizioni di Cuffaro, non può partecipare ad una gara pubblica, poiché non gli verrebbe concesso il certificato antimafia, mentre Cuffaro può continuare a governare la Regione, gestire i finanziamenti europei e nazionali, amministrare miliardi di beni pubblici? Tutto aggravato dalla farsa e dall’arroganza dei “festini” a base di cannoli per festeggiare una sentenza che ne sancisce i rapporti mafiosi, in una sorta di autoassoluzione che aggrava, al di là delle appartenenze, il giudizio generale sulla politica, ne acuisce la crisi, ne accentua il distacco dai bisogni e dal sentire comune della gente.
Quanto sta avvenendo in Sicilia ci dice che c’è poco tempo, che non è più rinviabile una riforma morale della società e del Paese, senza la quale la democrazia si spegne, come le stesse vicende politiche nazionali stanno dimostrando, con il rischio di un nuovo definitivo scontro tra politica e magistratura.
Il tema della lotta alla mafia impone una sua centralità nell’agenda politica, a condizione che la politica, tutta, a destra e sinistra, non ritenga di poterlo eludere per relegarlo nell’ambito giudiziario e penale. Ne va della sua credibilità, della sua trasparenza e di quella dell’intera democrazia repubblicana.
La vicenda Cuffaro non rappresenta una delle tante vicende giudiziarie siciliane e neanche una delle tante forme di distorsione della politica in una terra martoriata dalla mafia. Per questo merita una riflessione approfondita. Non è mai successo prima, nella storia repubblicana, che un presidente di regione fosse condannato per favoreggiamento ai mafiosi. La sentenza è di una gravità eccezionale e senza precedenti: 5 anni di reclusione (il massimo della pena prevista per favoreggiamento, aggravato dal comma 2 dell’art. 378 del codice penale) per aver favorito soggetti aderenti all’associazione mafiosa. A questa pena i giudici hanno aggiunto l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, pena significativamente ancora più grave per chiunque ricopra cariche pubbliche e, in questo caso, parliamo della massima istituzione della regione siciliana, equiparata dalla nostra costituzione a rango di ministro.
Una sentenza che conferma l’intero impianto accusatorio dei pubblici ministeri, condannando tredici su quattordici imputati, tra i quali figura centrale è Michele Aiello, l’imprenditore di Bagheria, proprietario della famosa clinica Villa Santa Teresa, prestanome di Bernardo Provenzano, condannato a 14 anni di reclusione e alla confisca immediata di 60 milioni di euro, 20 dei quali da restituire alla asl di Palermo.
L’altro elemento riconosciuto nella sentenza è la condotta continuata nella reiterazione del reato da parte di Cuffaro nel sistema messo in piedi assieme agli altri imputati.
Ma chi sono i soggetti mafiosi favoriti da Cuffaro? Innanzitutto Guttadauro, boss e capo mandamento di Brancaccio, uno dei principali quartieri mafiosi di Palermo, più volte condannato e in galera e all’epoca dei fatti agli arresti domiciliari; Aragona, medico e mafioso con condanne già scontate; Greco, anche lui medico e all’epoca dei fatti sotto processo per mafia; Miceli, medico, politico suo fedelissimo, all’epoca dei fatti sempre indagato per 416 bis e successivamente condannato a 8 anni di carcere; il maresciallo Riolo, condannato a 6 anni di reclusione e l’imprenditore Michele Aiello. Una sentenza grave, per violazione di segreto e favoreggiamento aggravato a singoli mafiosi ma non all’organizzazione Cosa Nostra.
E’ chiaro che una sentenza di questo tipo pone un problema di trasparenza della politica e di legittimità democratica per la permanenza alla più alta carica istituzionale della Regione siciliana. Una incompatibilità etica e morale, in una regione che ha pagato il più alto tributo di vite umane allo scontro tra la mafia e la democrazia, con il sacrificio di uomini dello stato, magistrati, politici, sindacalisti, preti, imprenditori e tanta gente “comune”, donne e uomini vittime di una violenza segnata dalla presenza mafiosa e dalle sue coperture e collusioni politico-istituzionali.
Come si può sostenere, nel momento della ribellione degli imprenditori e dei commercianti alla mafia del pizzo, che un imprenditore, nelle stesse condizioni di Cuffaro, non può partecipare ad una gara pubblica, poiché non gli verrebbe concesso il certificato antimafia, mentre Cuffaro può continuare a governare la Regione, gestire i finanziamenti europei e nazionali, amministrare miliardi di beni pubblici? Tutto aggravato dalla farsa e dall’arroganza dei “festini” a base di cannoli per festeggiare una sentenza che ne sancisce i rapporti mafiosi, in una sorta di autoassoluzione che aggrava, al di là delle appartenenze, il giudizio generale sulla politica, ne acuisce la crisi, ne accentua il distacco dai bisogni e dal sentire comune della gente.
Quanto sta avvenendo in Sicilia ci dice che c’è poco tempo, che non è più rinviabile una riforma morale della società e del Paese, senza la quale la democrazia si spegne, come le stesse vicende politiche nazionali stanno dimostrando, con il rischio di un nuovo definitivo scontro tra politica e magistratura.
Il tema della lotta alla mafia impone una sua centralità nell’agenda politica, a condizione che la politica, tutta, a destra e sinistra, non ritenga di poterlo eludere per relegarlo nell’ambito giudiziario e penale. Ne va della sua credibilità, della sua trasparenza e di quella dell’intera democrazia repubblicana.
22 Gennaio 2008